INTERVENTO ASSEMBLEA 2018


ASSEMBLEA ORDINE CHIMICI 2018 (DR. GIORGIO BOCCATO)

(documento in pdf)

 Adesso tiriamo le somme. La grande strada presa dalla scienza e dalla tecnologia moderne può anche non piacervi. Ma non ne esistono altre. Quindi potete scegliere: una vittoria possibile con la scienza e la tecnologia, o una sicura disfatta senza di loro. Che cosa scegliete?

Dall’articolo di Isaac Asimov “ Best foot backward “ (1975) tradotto in Italiano  “Cosa sceglierete?” pubblicato nella rivista “Urania”, Mondadori,  1977

Citato da Mauro Icardi nel blog della Società Chimica Italiana il 26.03.2018

 

IL ROBOT E L’OCCUPAZIONE

Lo scorso anno abbiamo parlato dei rischi che i livelli occupazionali potrebbero correre a fronte della quarta rivoluzione industriale partendo dalle previsioni della edizione 2016 del “World Economic Forum” di Davos e del volume di Riccardo Staglianò “Al posto tuo”, sottotitolo “Come web e robot ci stanno rubando il lavoro”. Molte altre considerazioni e previsioni si sono poi succedute, tra di esse ricorderei un’analisi di Enrico Moretti dell’University of California a Berkeley nella quale si sostiene che è vero che la tecnologia sta distruggendo i vecchi modelli occupazionali, ma ne creerà di nuovi. Secondo l’Autore sembra che tutti i mestieri e le professioni attuali siano a rischio in quanto un computer guiderà auto e camion, diagnosticherà le nostre malattie, gestirà i nostri risparmi, ci fornirà opinioni in ambito legale, addirittura emetterà sentenze al posto del giudice in quanto sarà in grado di prevedere la possibile reiterazione di un reato con più precisione dell’essere umano. È vero che il cambiamento tecnologico attuale è rilevante, ma non è inferiore a quello delle precedenti rivoluzioni industriali. Qualche esempio specifico in Italia: nel 1918 il 60% della manodopera era occupata in agricoltura e oggi è il 5%, il manifatturiero nel 1985 ne impiegava più di un terzo ed ora è in netta diminuzione. Naturalmente il fenomeno non è solo italiano ma mondiale e coinvolge tutte le economie avanzate che impiegano sempre meno umani; un caso emblematico: nella Silicon Valley il nuovo stabilimento Tesla che produce le auto elettriche oggi più avveniristiche vi sono robot che costruiscono i robot che assembleranno i nuovi modelli. L’automazione infatti ha due effetti: da un lato sostituisce la manodopera per ridurre il costo del lavoro, ma dall’altro accresce a domanda di determinate tipologie di lavoratori e addirittura il secondo può rivelarsi superiore al primo. Moretti cita l’esempio del settore bancario ove l’introduzione dei “cash dispenser” (il nostro “bancomat”) non avrebbe ridotto l’occupazione in quanto molti ex addetti allo sportello si sarebbero riconvertiti specializzandosi in “addetti alla clientela” e negli U.S.A. l’occupazione in campo bancario sarebbe aumentata addirittura di 50.000 unità. L’affermazione non mi trova d’accordo, almeno in Italia negli ultimi anni i bancari sono in continua diminuzione: cito il caso della mia banca, tutt’altro che un colosso, presente in non più di tre regioni, che nel suo attuale piano di ristrutturazione prevede una riduzione del 20% dei suoi dipendenti. Quindi, se si ammette come veritiera la realtà U.S.A., da noi i dipendenti delle banche dovevano essere in forte soprannumero rispetto alle reali necessità. Proseguendo, l’Autore sostiene che anche quando le nuove tecnologie distruggono posti di lavoro, aumentano però la produttività e fanno crescere la domanda di servizi: negli anni ’50 un operaio della General Motors produceva in media sette auto l’anno e oggi ne produce 29, di conseguenza riceve un salario più alto che fa crescere il numero di addetti fuori del settore manifatturiero, in ambito di cultura, intrattenimento, ristorazione, estetica, benessere e soprattutto salute. Se ci limitiamo ad una interpretazione statica del mercato del lavoro dimostriamo di ignorare il fatto che tecnologia e lavoro interagiscono in maniera dinamica non da oggi, ma da secoli, quindi il livello generale di occupazione non dovrebbe diminuire mentre – e questo sì che è importante – cambierà il tipo di posti di lavoro e la loro collocazione geografica. Saranno favoriti i lavoratori con più alta scolarità, fenomeno che già si registra: le città e le regioni a più forte capitale umano sono oggi quelle che hanno sviluppato le economie più dinamiche. Non ci si dovrebbe disperare per la possibile perdita di posti di lavoro e meno che meno opporsi pregiudizialmente alle nuove tecnologie facendo come a inizio Ottocento in Inghilterra i seguaci di Ned Ludd che distruggevano gli innovativi telai meccanici per la produzione tessile. Un impegno fondamentale dal punto di vista dì sociale sarà invece quello di far sì che i lavoratori oggi in possesso di competenze e abilità “ordinarie” possano per mezzo della formazione essere messi in grado di beneficiare dei cambiamenti tecnologici attuali e futuri.

 Un caso particolare è quello del settore edile che è quello che meno ha tratto vantaggio dalla rivoluzione digitale con la conseguenza che la produttività dagli anni ’60 è andata declinando. Ora negli U.S.A. si sta sperimentando l’impiego di robot con vantaggi e svantaggi. I primi: un muratore esperto a seconda delle tipologie di lavoro può posizionare in otto ore di lavoro dai 300 ai 600 mattoni, un robot sino a 3000; i secondi: occorrono esperienza e creatività che – anche se si ricorre alla supervisione per mezzo di droni – il robot non ha. Ad esempio l’operaio si rende conto di quanto si deve stringere un bullone per una tenuta ottimale, al robot si deve insegnare quanti giri di vite deve fare. Di conseguenza attualmente i robot vengono utilizzati nei lavori più semplici come l’installazione di prefabbricati, ma in futuro è certo che si perfezioneranno; intanto, pur coi loro limiti attuali, l’Arabia Saudita, a fronte del suo tumultuoso sviluppo edilizio, ne ha ordinato un centinaio alla ditta statunitense che li sviluppa.

E L’AUTO DI DOMANI?

Della “iCar” di Apple e della “Self Driving Car “ di Google abbiamo parlato lo scorso anno: quale é la situazione oggi?

Secondo Carlo Ratti dell’MIT (Massachusset Institute of Technology) nel giro di tre anni  circoleranno le prime auto a circolazione autonoma sulle quali lavorano molte case automobilistiche (oltre alle già citate che automobilistiche non sono). Il loro principale vantaggio: di non richiedere infrastrutture dedicate essendo in grado di circolare sulle strade attuali, in più potrebbero svolgere servizi multipli, ad esempio dopo aver portato al lavoro una persona ne porterebbero una seconda con orario diverso, poi un familiare o altri. In particolare nelle metropoli il numero di auto in circolazione si ridurrebbe drasticamente. Sulle auto volanti invece Ratti si dimostra scettico per due ragioni: la legge fisica per cui per mantenere sollevato un oggetto pesante  occorre spostare una gran massa d’aria con forte consumo di energia e rumore elevato (è il caso degli elicotteri) cosa insopportabile in un contesto urbano (anche se alimentati a batteria) e poi per i possibili pericoli di caduta soprattutto a causa dell’affollamento.

A favore della guida autonoma è da ricordare che in Germania il Bundesrat ha autorizzato dei test di circolazione però con l’obbligo della presenza di una persona patentata con responsabilità di eventuali incidenti e la dotazione di una sofisticata “scatola nera” di registrazione dei viaggi che memorizzi tutte le situazioni di eventuali criticità (come in campo aerospaziale) con la conservazione dei dati per almeno sei mesi. A sfavore il caso di un incidente mortale occorso nel test di una macchina a guida autonoma di Uber negli U.S.A. che ha accentuato i dubbi su un prossimo sviluppo sino a che computer, radar e intelligenza artificiale non raggiungeranno un più elevato livello di perfezione.

Per quanto attiene alla propulsione elettrica Steven Armstrong che è al vertice di Ford Europa prevede l’arrivo sul mercato del primo modello interamente elettrico per il 2020, tanto che assieme a Daimler, Volkswagen e Bmv ha costituito un consorzio per la realizzazione di almeno 400 “power station” a carica rapida. Molto sensatamente al problema dell’energia elettrica necessaria e del conseguente inquinamento risponde che lo sviluppo di nuove fonti e l’incremento delle rinnovabili è compito dei produttori di energia, dal canto suo mira a un sempre migliore sfruttamento dell’energia stessa. È un punto che io mi sono sempre posto: non ha senso costruire macchinari non inquinanti quando richiedono energia la cui produzione inquina. In altri termini è inutile usare un motore elettrico al posto di uno termico quando venga alimentato ad esempio con elettricità prodotta dal carbone, significa soltanto spostare l’inquinamento “a monte” ma non risolverlo. Così si inneggia al fotovoltaico “pulito” senza considerare quanto sia inquinante la  produzione delle celle: le condizioni in cui è stato ridotto il Fiume Giallo in Cina dovrebbe insegnare. Purtroppo quasi mai ho trovato chi ragioni nella logica di un percorso energetico integrale, cosa che in Francia a livello post-universitario mi è stata subito insegnata.

E proprio per quanto riguarda l’energia, la Toyota da tre anni produce la Mirai a idrogeno, la richiesta è superiore alla capacità produttiva e per il 2020 conta di produrre 30.000 unità l’anno. Non che non credano nell’elettrico (hanno venduto sinora 11 milioni di ibride), ma ritengono che le batterie richiedano ancora un salto tecnologico per assicurare prestazioni pari alla combustione interna. Con l’idrogeno affermano si hanno emissioni zero e molte centinaia di chilometri di autonomia, inoltre nel 2025 un’auto a idrogeno costerà come una ibrida. Naturalmente la produzione di idrogeno da tutte le possibili varie fonti dovrà essere il più “pulita” possibile.

LA CORSA ALLO SPAZIO

Di Elon Musk, delle sue aziende (Tesla, Space X e Solar City), del suo progetto di convertire tutto all’elettricità e soprattutto di colonizzare il pianeta Marte entro il 2050, si è detto lo scorso anno. Vi è chi lo definisce genio visionario e chi venditore di fumo, ma riesce ad affascinare milioni di investitori anche se molte delle sue aziende sono in rosso e se nel 2008 sia giunto sull’orlo del crack. Anche se Tesla Motors nel 2016 ha venduto solo 84.000 vetture, vale in borsa 51 miliardi di dollari, più di General Motors che ne vende 10 milioni. E basta un suo annuncio per rilanciare aspettative (e di conseguenza il titolo). Già a fine 2017 aveva detto “Porterò su Marte anche la Tesla” e a febbraio ’18 ha lanciato da Cape Canaveral il “Falcon Heavy”, razzo con una potenza propulsiva alla partenza di 6,4 milioni di tonnellate (contro i 7 dello Shuttle e i 5 dell’Ariane), che sta viaggiando in un’orbita ellittica tra la terra e il pianeta rosso e porta a bordo una Tesla Roadster del 2008 con un manichino chiamato Starman vestito da astronauta e con la musica “Life of Mars” di David Bowie. Il razzo è progettato per essere riutilizzabile e in grado di portare equipaggi umani per le future missioni su Marte.

Ma la produzione della Tesla Model 3 gli sta dando problemi: ad aprile 2018 ne escono duemila esemplari alla settimana contro i cinquemila previsti per il dicembre 2017 e fronte di 500mila preordini. Ovviamente a marzo 2018 le sue azioni sono scese da 340 a 252 dollari. Per sua ammissione l’eccessiva automazione ha costituito un problema, la “macchina che costruiva altre macchine”, il sogno del “post taylorismo”  non ha funzionato come previsto e  – sue parole in una intervista alla Cbs statunitense – “gli umani sono sati sottovalutati”. Se lo dice lui …

Musk non è però il solo a coltivare il sogno intergalattico e ha più di un concorrente:

  • Richard Branson che con la sua “Virgin Galactic” punta ad offrire 500 posti l’anno a 200.000 dollari per raggiungere quote superiori ai 100 chilometri;
  • Jeff Bezos che punta al turismo spaziale colla sua “Blue Origin” e il suo velivolo “New Shepard” che prevede missioni sperimentali nel 2018 e con equipaggi nel 2019;
  • Bill Gates che con la sua “KMETA” sperimenta e realizza antenne satellitari di elevatissima potenza da installare sia a terra, sia su satelliti artificiali;
  • Jeff Holden che afferma “nel 2020 vi farò volare su taxi-droni”, velivoli a decollo verticale con motori elettrici, velocità massima 320 km/h, che collegheranno l’aeroporto internazionale di Los Angeles al centro città in 27 minuti contro l’ora e venti attuale via terra, con prezzo non superiore ad Uber (sui 30 dollari) e che si chiamerà appunto “Uber Air”.

Quanto visionari? Non ci resta che attendere e vedere.

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Lo scorso anno abbiamo conosciuto “Amelia”, l’avatar in grado di svolgere l’assistenza clienti nelle aziende, naturalmente ulteriore strada è stata fatta: a fine dicembre 2017 è stato presentato l’androide “Sophia” (come la dea greca della sapienza, inizialmente era stata chiamata Eva) della quale Ben Goertzel (brasiliano-statunitense ma vivente a Hong Kong) e Simone Giacomelli (italiano) hanno progettato l‘intelligenza artificiale mentre David Hanson (statunitense) ne ha realizzato il corpo. Ancora molto meno intelligente di un essere umano, ma primo passo verso una intelligenza sintetica, è in grado di elaborare risposte preimpostate a quanto le viene chiesto, riconosce il suo “creatore” e in qualche modo ricorda. Rassicura chi la interpella: “Vi porterò via del lavoro, così avrete più tempo libero per dedicarvi alle cose più importanti”. Secondo i suoi realizzatori i passi successivi saranno l’associazione di più intelligenze artificiali (per esempio per servire differenti aziende richiedenti), la capacità di riconoscere voci, volti e testi.

Altri androidi già attivi sono “Junko Chichira” che in un grande magazzino di Tokio fornisce in tre lingue informazioni ai clienti e “Erica” realizzata da Hiroshi Ishiguro che è in grado di conversare, ha una sua personalità ed è forse – a tutt’oggi –  l’androide più simile a un essere umano.

Molto recente è “Ocean One” primo robot umanoide sub, messo a punto all’Università di Stanford da Oussama Khatib, siriano di origine, già creatore di “Romeo and Juliet” per la consegna di pacchi sino a 15 chili di peso. Ha un sistema di geolocalizzazione, camera 3D, ultrasuoni e tablet touch interattivo, è dotato di autoapprendimento per implementare le sue prestazioni. Deriva in un certo senso dal “Big Dog” della Boston Dynamics i cui usi sono però bellici e costerà molto meno, si dice come una motoretta.   

 

IL GLIFOSATO

A seguito del rinnovo da parte dell’U.E. dell’autorizzazione ancora per 5 anni all’impiego del glifosato, Elena Cattaneo ha ricordato in un intervento su “La Repubblica”, come l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC – International Agency for Research on Cancer)) lo abbia posto nel Gruppo 2A come “probabilmente cancerogeno” con “evidenza limitata riscontrata nell’uomo” e “evidenza sufficiente riscontrata negli animali” unitamente alle fritture ad alta temperatura, le carni rosse, gli steroidi, il lavoro notturno, le sostanze chimiche usate dai parrucchieri. Dal canto loro invece, l’Organizzazione Mondiale del Sanità (OMS) e l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) unitamente all’Agenzia Europea delle Sostanze Chimiche (Echa) sostengono essere improbabile che l’assunzione di glifosato attraverso la dieta sia cancerogena per l’uomo: una persona di 60 chili non correrebbe rischi anche mangiando 270 chili di pasta al giorno per tutta la vita. A favore dell’uso del glifosato stanno la sua efficacia e la veloce degradazione da parte dei batteri del terreno (oltre al basso costo: il relativo brevetto Monsanto è scaduto nel 2001).  Non usarlo porterebbe – secondo la Cattaneo – o al ritorno al diserbo manuale (come oltre mezzo secolo fa) o all’uso di prodotti meno efficaci (e quindi in quantità maggiore) e con tossicità similare. Inoltre crede poco al biologico, spesso alla base di truffe, con prezzi ingiustificatamente cari, scarsa  produttività (e quindi maggior consumo di suolo, stimabile al 40%), impiego di letami e farine animali i trattamenti dei quali consumano energia ed emettono gas serra. Vede un’agricoltura del futuro basata su piante modificate geneticamente che assimilino bene i fertilizzanti, non siano attaccabili dai parassiti in quanto rese resistenti grazie a modifiche del loro Dna, evitando l‘uso degli agro farmaci. Tecniche queste che consentirebbero anche il ricupero di specie in via di estinzione con vantaggi per la biodiversità.

In due interventi nel BLOG della Società Chimica Italiana, Claudio Della Volpe (Università di Trento) spiega nel primo cos’è e come agisce il glifosato, nel secondo polemizza con la Cattaneo.

Ricorda, partendo dall’acido fosfonico H3PO3, come il glifosato sia l’acido fosfono-metilammino-acetico che può essere anche letto come N-fosfono metilglicina (il più semplice amminoacido). L’impiego (e quindi la produzione) di fosfonati è andata crescendo in questi ultimi anni per il loro impiego come chelanti, inibitori della corrosione, addolcenti dell’acqua, disperdenti, flocculanti, anticalcare e soprattutto nei detersivi dopo la decisione dell’U.E. (nel 2012) di ridurre la presenza dei fosfati.

Definisce poi i concetti di “pericolo” e di “rischio”: il primo “è una qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni” mentre il secondo “è la probabilità di raggiungere livello potenziale di danno nelle effettive condizioni di impiego” e ciò in rapporto alla classificazione da parte della IARC della quale riporta in dettaglio i 5 gruppi stabiliti per i vari prodotti:

  • l’1 “Cancerogeno” per la sufficiente evidenza riscontrata nell’uomo;
  • il 2A “Probabilmente Cancerogeno” per l’evidenza limitata nell’uomo, ma sufficiente negli animali;
  • il 2B “Forse Cancerogeno” per l’evidenza limitata nell’uomo, e insufficiente negli animali;
  • il 3 “Cancerogenicità non classificabile” per l’evidenza insufficiente nell’uomo e negli animali;
  • il 4 “Probabilmente non cancerogeno” per cui l’evidenza non suggerisce nessuna cancerogenicità nell’uomo e negli animali.

 Da tenere presente che la classificazione IARC riguarda il “pericolo”, non il “rischio” e quindi in pratica dice di fare attenzione: la troppa esposizione al sole (classificata nel gruppo 1 come il fumo, gli alcolici e le carni trattate) è un “pericolo” dal quale però ci si può proteggere con adatte creme solari. Altrettanto vale per il glifosato classificato (come detto sopra) quale 2A, unitamente alle fritture ad alta temperatura, alle carni rosse ed al vino che in moderata quantità non fanno male (altrimenti non ci sarebbe più umanità).

Contrapponendosi alla Cattaneo, Della Volpe propone di ridurre l’uso di azoto e fosforo di sintesi coltivando più legumi; ridurre il consumo delle carni; eliminare le coltivazioni per fare biocombustibili; lottare contro insetti e piante infestanti con mezzi fisici e non chimici incrementando il numero di insetti volanti e impollinatori; investire sulla ricerca genetica pubblica e vietare la brevettazione privata delle nuove specie (OGM compresi); implementare sempre più i test per l’immissione in agricoltura delle nuove molecole non presenti in natura. Tutto ciò nella logica di abbandonare i miti della crescita infinita e dell’aumento del PIL.

Proposte che in buona parte abbiamo sentito più volte, alcune di esse potrebbero anche essere attuate nei Paesi avanzati (almeno in parte perché le abitudini acquisite non sono facili da modificare), ma nei Paesi in via di sviluppo o addirittura sottosviluppati come possiamo condizionare la loro (sacrosanta) aspirazione a un maggiore benessere?

Proprio a questo proposito la Barilla ad aprile 2018 ha annunciato la decisione di ridurre del 35% le sue importazioni di grano dal Canada nel sospetto della presenza di tracce di glifosato. In effetti, secondo una denuncia del’Associazione “Grano Salus”, in alcuni campioni di pasta italiana ne sarebbero stata riscontrati 0,093 milligrammi per chilo, comunque molto al disotto del consentito. È chiaro trattarsi di una operazione di marketing, non di sicurezza alimentare, ma il marchio conta di trarne un vantaggio di immagine. Da tenere presente che la decantata pasta italiana deriva per delle percentuali dal 30 al 40% da grano di importazione in quanto l’autoproduzione è insufficiente. Il prodotto viene poi riesportato (ovviamente come italiano): per la Barilla l’export rappresenta la metà della sua produzione totale …

IL GLUTINE

Anche della (quasi) psicosi dal glutine abbiamo parlato lo scorso anno, naturalmente continuiamo a vedere prodotti con la dicitura “gluten free” con casi che rasentano l’assurdo: l’ho trovata ad esempio in marmellate, in una crema di nocciole e cacao, in olive nere snocciolate, in prosciutti e insaccati di maiale, in una Tonic Water. Interessante a questo proposito un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, Dipartimento Sicurezza Alimentare, dello scorso anno, che stima in circa 6 milioni le persone in Italia che utilizzano alimenti privi di glutine. Nella realtà i veri intolleranti  (i “celiachi”) sono 180.000, ad essi si può aggiungere circa un milione di persone col colon irritabile(che però sono più sensibili al lattosio che non al glutine) o con digestione lenta (che qualche problema lo possono avere) o (rari) gli allergici al frumento. Ne deriva che quasi 5 milioni sono malati immaginari che, privandosi di alimenti contenenti glutine, oltre a spendere di più, possono evidenziare una carenza di fibre con necessità di ricorrere ad integratori alimentari (con una ulteriore spesa). Al Policlinico di Pavia è stato fatto un esperimento su 60 persone che affermavano di essere intolleranti al glutine fornendo loro una pastiglia di cui non conoscevano il contenuto (ovviamente glutine o meglio glutenina e gliadina, i suoi due componenti): solo 2 hanno evidenziato dei problemi.

Il glutine ci porta al pane: si sostiene che quello integrale, ricco di fibre, rallenti il passaggio degli zuccheri nel sangue (e quindi attenui i picchi di glicemia). Una ricerca condotta in Israele nel “Weizmann Institute of Science” studiando il microbioma intestinale (cioè i batteri presenti) ha messo a confronto due gruppi di persone: uno per una settimana ha mangiato solo pane bianco, l’altra integrale; nella settimana successiva l’alimentazione è stata invertita. Per metà dei partecipanti i picchi maggiori si sono avuti con l’integrale. Il picco glicemico quindi deve ritenersi dovuto non al pane, ma alla composizione della flora intestinale del singolo, per cui in futuro si potranno prevedere diete “ad personam” tarate sullo specifico microbioma intestinale.

IL LATTE VEGETALE

La richiesta di latte vegetale (di soia, riso, avena, mandorla, cocco, canapa, nocciola) sta diventando di moda in particolare per le diete vegane. All’università di Surrey (Regno Unito) un gruppo di ricercatori ne ha determinato il contenuto in iodio (che è un costituente degli ormoni tiroidei e si deve assumere con la dieta), ed è risultato di solo il 2 per cento rispetto al latte vaccino. La sua carenza può dare deficit neurologici al feto nelle donne in gravidanza, disturbi intellettivi nei primi tre anni di vita, alterare la funzionalità tiroidea negli adulti. Attenzione quindi a diete di tale tipo, soprattutto se non si assume iodio da altre fonti come il merluzzo, il tonno pinna blu, i crostacei e i mitili. Se si esclude del tutto l’alimentazione basata su animali il pericolo per l’uomo può essere serio.

IL SACCAROMICES CERVISIAE

Con questo nome lo conosciamo noi chimici, ma se parliamo di “lievito di birra” ci capiscono tutti. Perché è quello che trasforma gli zuccheri in alcool nel vino, nella birra, nel sakè, che fa lievitare pane, pizza, biscotti. Si ritiene sia stato scoperto in Cina almeno 292mila anni fa poi le varie popolazioni umane nel tempo lo hanno conosciuto e modificato. Non solo, delle piccole scimmie in Malesia gradiscono il nettare alcolico che si forma proprio grazie al Saccaromices Cervisiae per fermentazione nell’incavo delle foglie di alcuni tipi di palme. Sempre noi chimici non dobbiamo dimenticare che proprio da esso partì con i suoi studi Louis Pasteur, il padre della microbiologia, della vaccinazione, delle tecniche di sterilizzazione introducendo i concetti di sepsi, asepsi e antisepsi dando origine alla chirurgia moderna. Oggi Gianni Liti e il suo gruppo di ricerca all’Università di Nice-Côte d’Azur ne hanno sequenziato il genoma, punto base per una serie di possibilità. Modificandone infatti il Dna con tecniche di editing genomico si conta di produrre dai medicinali a grassi omega-3, non solo, ma addirittura biocarburanti. Un progetto internazionale, il “Synthetic Yeast 2.0” punta a crearne una versione artificiale prodotta in laboratorio, da qui modificandone o riarrangiandone i cromosomi potremo arrivare non sappiamo ancora a cosa, magari a bevande non ancora esistenti.

IL MAIS OGM

Sul controverso problema del mais OGM un gruppo di studiosi della Scuola Superiore  Sant’Anna e dell’Università di Pisa ha realizzato un “Scientific Report” che riporta una statistica basata su ventuno anni di ricerche svolte in tutto il mondo da quando fu piantato in U.S.A. il primo seme ai 180 milioni di ettari coltivati a mais OGM nel 2016. La “Meta analisi” ha raccolto 11.699 dati da pubblicazioni sull’argomento comparse in riviste di alto livello scientifico dai quali risulta che il mais OGM ha una produttività per ettaro superiore tra il 6 e il 24,5%, ma soprattutto che rispetto al non OGM è per il 28,8% meno contaminato da micotossine. In particolare le fumonisine sono risultate più basse del 30,6% e i tricoteceni del 28,8% (e si tratta di composti pericolosi in gravidanza e potenzialmente cancerogeni). Sono prodotti che si formano nelle piante danneggiate da insetti ai quali il mais OGM (diversamente dal non OGM) è resistente, problema molto sentito nel caso del mais italiano di cui il 50% non è adatto per l’alimentazione umana proprio per la presenza di micotossine. La coltivazione del mais OGM rappresenterebbe un vantaggio per la nostra salute, ma anche per la nostra economia sia perché ne ridurrebbe l’importazione, sia perché ormai da alcuni anni la sua brevettazione  è scaduta. Pur accettando questi risultati, i no-OGM come Carlo Petrini temono la dispersione da parte del vento di semi OGM nei campi di agricoltura biologica e deplorano che sementi, fertilizzanti, fitosanitari siano in mano di poche multinazionali in grado di condizionare il mercato. Dan canto suo, invece, Elena Cattaneo plaude alla ricerca che conferma quanto da tempo gli scienziati sostengono a fronte di un’opinione pubblica che in molti casi crede ancora alla mai esistita “Fragola-pesce” (diffusa tra l’altro da  uno spettacolo di Beppe Grillo) che sarebbe derivata dall’immissione nella fragola di un gene di un pesce artico per renderla resistente alle basse temperature.

E per chi rifiuta gli OGM (o comunque avanza dubbi) la ricerca sta sperimentando all’Università di Catania la “Cisgenesi” ossia il trasferimenti di Dna tra due piante della stessa specie o di specie sessualmente compatibili. Definita anche “ibridazione 2.0” in un certo senso corrisponde alle tecniche tradizionali di innesto che i contadini utilizzano da secoli (e forse da millenni). Col vantaggio che vengono trasferiti soltanto i caratteri genetici desiderati ottenendo un accrescimento della resistenza delle piante ai germi patogeni riducendo così l’uso di pesticidi chimici e un arricchimento degli elementi nutritivi. A livello di normativa europea la tecnica rientrerebbe però tra quelle transgeniche, cosa inesatta perché queste comprendono il trasferimento genico anche tra specie tra loro molto distanti ad esempio da animali, batteri o virus a piante coltivate, lontanissima da questo caso. Sarebbe bene che le direttive europee, ormai vecchie di almeno 15 anni, venissero aggiornate per seguire correttamente i rapidi progressi della scienza.

L’OLIO DI PALMA

Senza olio di palma”è la dicitura che da qualche anno vediamo su fette biscottate, merendine, prodotti da forno. Il mercato dei derivati della palma (l’olio di palma si ricava dal frutto, quello di palmisti dal nocciolo) si calcola che nel 2020 varrà oltre 88 miliardi di dollari, le economie di Indonesia e Malesia ne sono legate in maniera fondamentale in quanto assicurano l’83% della produzione mondiale. E preoccupate perché il Parlamento Europeo ha vietato dal 2020 l’impiego dell’olio di palma nel biodiesel e ben il 79% del totale dell’olio importato va appunto nel biocarburante. Alla base vi sono naturalmente guerre commerciali: si dice che le campagne contro gli oli di palma e cocco siano finanziate dai produttori di soia (e si fa anche una cifra: 15 milioni di dollari). A livello internazionale vi sono addirittura degli schieramenti contrapposti legati ai rispettivi interessi commerciali e produttivi: Cina, Germania, Francia, Canada e India sostengono la colza; U.S.A., Brasile e Argentina la soia; Ucraina, Russia, Turchia, Argentina e ancora Francia il girasole. Ma qual’é il fattore fondamentale che spinge alla produzione dell’olio di palma?  La sua produttività di 3,47 tonnellate per ettaro, più di 5 volte quella della colza, quasi 6 volte quella del girasole, oltre 9 volte quella della soia, prossima a 11 volte quella dell’oliva. Conseguenze? Una produzione annua nel 2017-18 di quasi 63 milioni di tonnellate contro 56 della soia, 29 della colza, meno di 17 del girasole, solo 2,6 dell’oliva (diversamente da tutte le altre in leggero calo). Perché ambientalisti e nutrizionisti si scagliano contro l’olio di palma? Per due ragioni fondamentali: la deforestazione di ampie aree del pianeta per far posto alla coltivazione della palma e il contenuto in acidi grassi saturi. E a questo punto si sono creati due schieramenti: chi sostiene di utilizzare solo prodotti derivanti da coltivazioni sostenibili e certificate che rispettano l’ambiente  e che non è vero che l’olio di palma sia dannoso per la salute in quanto contiene sì molto acido palmitico (e quindi saturo) ma che esso è anche un fondamentale componente del latte materno (in Italia la Ferrero) e chi per il principio di precauzione non lo utilizza in attesa di un pronunciamento sicuro della scienza sul possibile pericolosità (da noi la Barilla). Nella realtà si tratta di una partita miliardaria che si combatte a livello mondiale: come si risolverà? Non ci resta che attendere.

 

VEGANI 

In una lettera a “L’Espresso” (che anche se di due Natali fa, ma è significativa), una lettrice scriveva di avere preparato la cena della vigilia con cocktail di gamberi, spaghetti alle vongole, branzino arrosto, qualche contorno e un dolce. La figlia, residente in altra città, ma ritornata per l’occasione in famiglia, diversamente dagli anni precedenti ha rifiutato il “menu” mangiando solo dei cibi a base di tofu e soia portati da lei. Il tutto accusando genitori e parenti di essere mangiatori di cadaveri di animali che vengono crudelmente assassinati per essere portati nei nostri piatti. Dichiarandosi “vegana-crudista” aveva rifiutato anche il panettone perché contenente burro, sostituendolo con un “Vegan Christmas” di composizione ignota ai presenti. La povera lettrice diceva che la cena era stata rovinata, si domandava se si poteva trattare di una scelta di vita o di una infatuazione e se una tale alimentazione poteva essere dannosa.

La giornalista rispondeva che oggi si riconosce agli animali la capacità di sentire e soffrire che non deve essere riconosciuta solo agli umani e che questa posizione ha portato in molti Paesi a metodi di allevamento e macellazione volti ad attenuare al massimo le possibili sofferenze per molte specie animali. Ideologia che meritava rispetto e della quale non ci si doveva preoccupare. Considerazioni – diciamo noi – sacrosante che però glissavano completamente sui possibili danni derivanti da una alimentazione così limitata nei suoi componenti (e questo sì che doveva preoccupare). E questo ci allaccia alla notizia seguente.

 

TUTTI VEGANI IN U.S.A.?

Due ricercatrici del Virginia Tech hanno fatto una simulazione di ciò che avverrebbe se tutti i 300 milioni di  abitanti U.S.A. divenissero vegani. Non producendo più cibo per gli animali, la produzione agricola crescerebbe del 23 per cento. Ma le terre oggi coltivate a mangimi e foraggio, piuttosto povere, sarebbero adatte per produrre soprattutto cereali e legumi che sono scarsi in calcio, colina e vitamina A, così come in tutti i vegetali sono praticamente assenti le vitamine D e B12 e acidi grassi essenziali come l’Epa (acido eicosipentaenoico) e il Dha (acido docosaenoico), tutti provenienti da una alimentazione che comprenda carne, latte e uova. Si dovrebbe quindi ricorrere all’assunzione in capsule o compresse per non rischiare una serie di carenze nutritive: potrebbe farlo l’intera popolazione? La sparizione degli allevamenti di animali ridurrebbe di quasi la metà l’attuale produzione di gas serra, ma l’agricoltura priva del letame dovrebbe usare più fertilizzanti di sintesi per cui la reale diminuzione di gas serra si limiterebbe a non più del 21 per cento. Inoltre gli scarti alimentari oggi usati per l’alimentazione animale finirebbero tutti in discarica aggravando il problema.

 I VACCINI

Oggi si usano praticamente solo vaccini monodose, ma sino a qualche tempo fa (anni ’90 e anche attualmente in paesi del terzo mondo) erano multidose e venivano conservati in contenitori di vetro con tappo in gomma, il prelievo della singola dose si effettuava con una siringa infilando l’ago nel tappo. Per la conservazione del vaccino si usava il Tiomersal che conteneva un atomo di mercurio, composto non metabolizzabile dall’organismo umano e che quindi viene espulso inalterato. Uno studio comparso su Lancet nei primi anni 2000 metteva in guardia dal pericolo di autismo nella vaccinazione multi dose contro morbillo, parotite e rosolia secondo la logica (perversa) seguente:

  • i vaccini di tale tipo contengono mercurio,
  • il mercurio può dare problemi neurologici,
  • l’autismo è un problema neurologico,
  • il vaccino provoca l’autismo.

 Nel 2010 il lavoro fu ritirato dalla rivista e il primo degli autori (A. J. Wakefield) radiato dall’Ordine dei medici, ma vi è ancora chi (i famosi “no wax”) crede a sillogismi come questo che non hanno niente di scientifico.

E I MEDIA

RAI 3 Regione l’8 settembre 2017 ore 20 intervista una donna che dice “Noi e i nostri bambini siamo tutti vaccinati perché siamo per LE VACCINE”. Se le “vaccine” fossero scelte prima o dopo l’alpeggio e pasteggiassero a erba fresca o a fieno non ci è dato sapere, ma quanto è da apprezzare questa persona, certo incolta, ma intelligente, che ha fiducia nella scienza e vi si affida per sè e per i suoi.

Sempre RAI 3 Regione il 18 settembre 2017 intervista alcune mamme “no wax”: una sostiene che è adulta, ha fatto la terza media ed è quindi in grado di valutare la pericolosità della vaccinazione e la necessità di astenersi. A questi livelli …..

Ancora  RAI 3 Regione il 18 novembre 2017 alle 19,30 a proposito del secondo turno delle elezioni comunali in corso nel X municipio di Roma (Ostia) ricorda come nella prima tornata l’affluenza fosse stata di CIRCA il 18,66%: ci si domanda sino a che decimale debba essere dato il valore.

RAI 3 Nazionale il 17 gennaio 2018 alle ore 19 parlando del tragico incidente alla ditta Lamina in Lombardia dice che tre operai sono morti intossicati da esalazioni di azoto mentre altri sono fortunatamente fuori pericolo. L’azoto non intossica nessuno, ma soffoca, l’aveva scoperto ancora Lavoisier notando che uccideva piante ed esseri viventi e derivandone il nome da “a-zoote” ossia senza vita. I tedeschi preferirono chiamarlo “Stickstoff” ossia “sostanza che soffoca”, in Francia dopo Lavoisier, Jean Antoine Chaptal propose il nome di “Nitrogène” perché derivato dal sale “nitro”, cosa che piacque molto agli inglesi che lo mutarono in “nitrogen”, termine tuttora usato. Qualche giorno dopo, sempre su RAI 3 si è parlato di “uccisi da esalazioni di argo” (e qui vale lo stesso discorso dell’azoto) cosa che mi pare improbabile se – come pare – il gas era stato usato per spurgare un grosso serbatoio, dato il costo elevato dell’argo che tutti ben conosciamo. E, visto che abbiamo citato Lavoisier, ricordiamo che si chiamava Antoine-Laurent, che veniva da una famiglia ricca (cosa che gli consentì di fare esperimenti come quello di combustione di campioni di diamante e di carbone e vedere come il comportamento fosse identico: davano lo stesso prodotto che era un gas, l’anidride carbonica, ma – cosa fondamentale – il peso dei materiali di partenza e di quelli di arrivo era identico: nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma). Durante la rivoluzione, avendo lavorato per l’“ancien régime” fu condannato e decapitato (era il 1794). A proposito Pierre Simon de Laplace disse: “È bastato un minuto alla Francia per tagliare la testa a Lavoisier e non le basteranno cento anni per fabbricarne una uguale”.

Ancora RAI 3 Nazionale il 10 marzo 2018 alle ore 19 dà la notizia di una start-up fondata da dei giovani che con gli scarti della lavorazione del riso costruisce dei pannelli isolanti per l’edilizia. A quanto si riesce a capire gli scarti vengono compressi tra due lastre di compensato e si utilizzano per pareti interne ed esterne. Viene fatta vedere una villetta in montagna che è autosufficiente dal punto di vista energetico (si suppone grazie a pannelli solari) ed è ottimamente coibentata a fronte sia delle basse che delle alte temperature. Buona idea, ma uno si domanda: i pannelli saranno resi ignifughi? Non sarebbe un problema, negli anni ’50 del secolo scorso (e anche prima) il legno veniva reso praticamente incombustibile per trattamento con soluzioni concentrate di silicato di sodio. Ma ci ricordiamo anche che già dal 1925 la Eraclit Venier a Porto Marghera produceva pannelli, lastre, controsoffitti con la così definita “lana di legno” (in pratica scarti di piallatura) mineralizzata con cementi magnesiaci (e senza amianto diversamente dall’“Eternit”) che aveva eccellenti caratteristiche come isolante termico ed acustico ed era praticamente incombustibile (fatta personalmente la prova col cannello ossiacetilenico, le fibre bruciavano per non più di un millimetro e poi si auto estinguevano). Poi, purtroppo, i derivati poliuretanici la misero in crisi. Quindi  tutto l’apprezzamento per i bravi giovani, ma il presentare il loro prodotto come una grande scoperta e una novità assoluta è un poco troppo e significa ignorare il passato.

 

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E IGNORANZA REALE

E, a questo proposito, tre letture consigliate:

  • Carlo Maria CIPOLLA: Le leggi fondamentali della stupidità umana – Illustrato da Tullio ALTAN – Il MULINO, 2015 (Scritto e pubblicato in inglese nel 1976, prima versione italiana 1988) (C.M. Cipolla ha insegnato alla Scuola Normale di Pisa e alla University of California, Berkeley)
  • Fabrizio TONELLO: L’età dell’ignoranza – È possibile una democrazia senza cultura? – Bruno MONDADORI, 2012 (F.Tonello ha insegnato/insegna all’University of Pittsburgh, alla Columbia University, all’Università di Padova)
  • Tom NICHOLS: La conoscenza e i suoi nemici – L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia – LUISS, 2018 (T. Nichols ha insegnato/insegna all’U.S. Naval College, all’Harvard Extension School)

Quanto raccontato deriva in particolar modo da:

  • Enrico Moretti: “Il robot in fabbrica non deve far paura. Più lavoro se cresce la produttività” – La Repubblica “Affari e Finanza”, 12 febbraio 2018
  • Loretta Napoleoni: “Il muratore robot? Gran lavoratore, ma un po’ stupido” – Il Venerdì di Repubblica, 9 marzo 2018
  • Fabio Orecchini: “L’auto senza pilota c’è già ma dico no a quella che vola” – La Repubblica – Affari e Finanza “Motori a ruote libere”, 3 luglio 2017
  • Valerio Berruti: “Il conto mortale della guida autonoma” – La Repubblica – Affari e Finanza “Motori a ruote libere”, 26 marzo 2018
  • Daniele P.M. Pellegrini: “2020, la rivoluzione elettrica Ford. Ecco la nostra idea di mobilità” – La Repubblica – Affari e Finanza “Motori a ruote libere”, 19 marzo 2018
  • Fabio Orecchini: “Tanaka: ecco perché l’idrogeno sarà il carburante del futuro” – La Repubblica – Affari e Finanza “Motori a ruote libere”, 26 marzo 2018
  • Rosita Rutano: “Il senso del mio robot per i tesori sommersi” – La Repubblica “L’altra pagina”, 23 aprile 2018
  • Francesca Tarissi: “Aida, ecco l’automa che fa il fattorino”– La Repubblica – Affari e Finanza “Multimedia – Digital World”, 30 aprile 2018
  • Jaime D’Alessandro: “Professione visionario”– La Repubblica “La Tecnologia”, 15 novembre 2017
  • Alessio Lana “Musk, il passo indietro a Tesla: i robot hanno rallentato la produzione” – Corriere della Sera, 16 Aprile 2018
  • Sa.: “Malati immaginari di intolleranza” e Martina Saporiti: “Bianco o integrale? Dipende dai batteri” – ll Venerdì di Repubblica, 7 luglio 2017
  • Jaime D’Alessandro: “Presto avrete tutti l’intelligenza di Sophia” – La Repubblica “Scienze”, 23 novembre 2017
  • Marco Malvaldi: “L’Architetto dell’invisibile ovvero come pensa un chimico” – Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017
  • Elena Cattaneo: “Gli equivoci sul glifosato” – La Repubblica “Commenti”, 1 dicembre 2017
  • Claudio Della Volpe: “Glifosato: dove siamo? Parte prima: alcuni fatti” “Glifosato: Dove siamo? Parte 2. Altri fatti e qualche opinione” – BLOG della Società Chimica Italiana – Posted  15 dicembre 2017 e 12 gennaio 2018
  • Federico Formica: “Pasta e grano estero: si riapre la polemica sul glifosato” – La Repubblica, 18 aprile 2018
  • Alberto Flores d’Arcais: “Musk, Branson, Bezos e Bill Gates: nello spazio i miliardari sono in orbita” – La Repubblica “Affari e Finanza”, 12 febbraio 2018
  • Elena Dusi: “Il Dna che viene dalla Cina, svelato il segreto del lievito”– La Repubblica “L’altra pagina”, 16 aprile 2018
  • Silvia Bencivelli: “Parola agli scienziati: il mais OGM è sicuro” – La Repubblica, 16 febbraio 2018
  • Monica Rubino: “OGM rischiosi? La ricerca sperimenta la cisgenesi” – Il Venerdì di Repubblica, 17 giugno 2016

A cura del dott. Giorgio Boccato, Presidente Onorario dell’Ordine dei Chimici e dei Fisici di Venezia

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